Il cibo, la vita e la morte
Diario dallo Yemen
Marco Frattini, cameraman del World Food Programme (WFP), riflette sul suo viaggio in Yemen, dove è andato per documentare quella che è ormai considerata la più grave crisi umanitaria al mondo.
Ero a Hajjah quando ho saputo della morte del piccolo Mohamed. L'avevo fotografato qualche giorno prima a Sana'a, all'ospedale di Al Sabeen. Aveva otto mesi e pesava quanto mia figlia alla nascita. Ho provato una grande tristezza alla notizia della morte di Mohamed. E anche un senso di colpa. Avevo messo la sua foto sui social media: era uno scatto in bianco e nero, piuttosto artistico. Ho preso subito il cellulare, volevo cancellare quel post, lo trovavo a quel punto inappropriato per i social, ma non c'era segnale dove mi trovavo. Ho pensato al padre di Mohamed, seduto sul letto, mentre gli stringeva la mano. Aveva firmato il consenso allo scatto e al suo pubblico utilizzo, ma il bambino era ancora vivo, allora. Ora era morto.
Questo è il mio quinto viaggio in Yemen. Ogni volta, visito gli stessi ospedali. E ogni volta, la situazione è peggiore dell'ultima volta che ci sono stato. Anche prima della guerra, i reparti che curavano la malnutrizione erano pieni. Sempre. Era a causa della povertà. Ma questa volta, c'era qualcosa di diverso. Non era solo il fatto che non ci fossero abbastanza letti, o che mancassero le medicine: se ci tornavi qualche giorno dopo, alcuni dei bambini che avevi visto la volta precedente non c'erano più. Ti chiedevi che ne fosse stato di loro. Ti rispondevi che lo sapevi. E poi allontanavi il pensiero, per poter continuare a lavorare.
Ti chiedi da quanto tempo questi bambini non mangino un pasto come si deve. Senti le storie di madri così malnutrite che non possono allattare i propri figli, che bollono lo stesso pugno di riso più e più volte così che i bambini possano berne l'acqua di cottura per un po' di nutrimento. Ti scopri a chiederti: ‘Perché hanno aspettato così tanto a portare i propri figli all'ospedale?' Poi parli con i genitori, e tutte le storie si assomigliano. I padri — mi ha sorpreso vederne così tanti, più di quanti ne abbia visti in altre emergenze in altri paesi — hanno perso il lavoro quando è iniziata la guerra. I più fortunati lavorano tre, quattro giorni al mese, facendo dei lavori occasionali, nelle cucine o nei cantieri, per un dollaro al giorno. Hanno venduto tutto quello che avevano, per tirare avanti. E quando la situazione a un certo punto diventa critica, non riescono a mettere insieme il denaro necessario per il viaggio fino all'ospedale più vicino.
In contesti simili, devi costruirti una corazza, trovare una qualche forma di ‘protezione' che ti permetta di continuare a lavorare. Guardare la realtà attraverso le lenti di una macchina fotografica ti aiuta a mantenere una certa distanza. Ma la realtà ti rimane dentro.
Qualche volta, in questo viaggio, la sera, da solo in camera, mi lasciavo andare a un pianto liberatorio, dando sfogo alle emozioni che avevo soffocato durante il giorno. Chiamavo casa, per condividere quello che provavo. Dopo la morte di Mohamed, è stata mia moglie a dirmi che non dovevo togliere la foto del piccolo dai miei account social, che era una testimonianza della tragedia che si sta consumando in Yemen, che poteva essere di aiuto affinché il mondo sapesse e facesse qualcosa. Quelle conversazioni mi hanno aiutato, ma qualche volta mi viene il dubbio che le cose stiano davvero così. Un posto come lo Yemen ti fa pensare ai limiti dell'intervento umanitario.
Eppure, tra le rovine, le difficoltà e una tristezza immensa, rimangono sacche di normalità. Ho visto bambini giocare all'aperto, all'ombra degli antichi e bei palazzi di Sana'a. I mercati erano aperti, con i banchi pieni di frutta e verdura che le persone non possono permettersi di comprare. Davanti a un ospedale pediatrico, una bambina vendeva palloncini colorati, uno dei pochi regali che i genitori possono ancora permettersi di fare ai loro bambini.
Le famiglie ci accoglievano con piacere nelle loro case e, nonostante le cucine spoglie, insistevano ad offirci quel poco di cibo che avevano. Sul vassoio dal quale, per tradizione, si mangia tutti insieme, c'era giusto del pane schiacciato, un pò di riso ricevuto nelle distribuzioni del WFP, pochissima carne a mo' di presenza simbolica e un paio di pomodori. In condizioni normali, il cibo per cinque o sei persone sarebbe stato appena sufficiente per una persona sola.
Tornati in strada, fermi nelle nostre macchine, ai semafori, la stessa scena si ripeteva uguale davanti ai nostri occhi: una donna si avvicinava chiedendo l'elemosina, con un bambino tra le braccia. Lo spesso vetro del finestrino blindato attutiva il suono del tambureggiare delle dita, distorceva i suoi lineamenti.
Quella distorsione dell'immagine, quel suono smorzato, esprimono bene, per me, la distanza imprescrutabile che ci separa: una distanza che aumenta man mano che torno alla vita di tutti i giorni. Lo Yemen sembra irreale, un sogno, o meglio, un incubo. Guardo le mie foto, rivedo i video che ho girato, e mi ritorna tutto in mente: i nomi, i volti, le storie. Mi viene da chiedermi, allora, chissà come stanno queste persone, saranno ancora vive? E poi allontano il pensiero, e torno qui, a Roma, a casa mia.