Case distrutte, sogni distrutti, gente affamata a Gaza in un cupo fine anno
“Ho bisogno di cibo”, mi dice Abdul Rahmen.
Siamo a Khan Younis, città a sud ovest nella Striscia di Gaza. Gli uomini distribuiscono riso caldo in contenitori che una folla porge disperata. Un ragazzo piange, temendo che il cibo, fornito dal World Food Programme (WFP) finisca prima che riesca a riceverlo.
“Avevo ambizioni, dei sogni", dice Rahmen, descrivendo le sue aspettative di vita, ora a pezzi come gli edifici intorno a noi. “Ma ho bisogno di cibo. Non riesco neanche a comprare il pane”.
Ero arrivato a Gaza il giorno prima, con un viaggio di dieci ore da Amman, in Giordania, su un autobus pieno di operatori umanitari. Parte di quel tempo è trascorso in attesa, al valico di frontiera israeliano di Kerem Shalom, una delle poche vie disponibili per consegnare aiuti umanitari salvavita.
In attesa di autorizzazione c'era anche un enorme arretrato di rifornimenti urgenti – scatole di medicinali, cibo e altri aiuti – che i pochi camion disponibili e autisti autorizzati avrebbero dovuto trasportare su strade distrutte, tra folle disperate e con il rischio delle bande armate.
La mia visita di dieci giorni a Gaza, all’inizio di dicembre 2024, è stata la prima dallo scoppio del conflitto, quasi 15 mesi fa. In qualità di responsabile delle comunicazioni di emergenza del WFP, il mio compito è ascoltare, registrare e condividere le storie delle persone in luoghi come Gaza, per dare voce a quanti altrimenti non verrebbero ascoltati.
Grande quanto la città statunitense di Detroit, Gaza oggi è una montagna di macerie. Nell’ultimo anno mi sono recato in molte zone di conflitto – ad Haiti in preda alle bande armate, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, a Khartoum la devastata capitale del Sudan – ma Gaza ha una dimensione diversa. Da un lato, le onde si infrangono una spiaggia mediterranea, un’illusione di serenità. Dall’altra la distruzione è senza fine, con il fumo nero che sale dagli edifici in fiamme.
C’è un’altra differenza rispetto ad altre zone di guerra: gli abitanti di Gaza non possono fuggire da questo conflitto. Sono intrappolati.
E la fame è alle stelle. Più del 90% della popolazione vive livelli di insicurezza alimentare “di crisi” o peggiori, secondo gli ultimi dati. Più di 300.000 persone stanno probabilmente vivendo una situazione di fame catastrofica, il livello più alto di insicurezza alimentare.
Taglio delle razioni
Il cibo del WFP che può entrare nella Striscia può soddisfare solo un terzo del fabbisogno utile per raggiungere le persone più affamate. Nel corso dei mesi, siamo stati costretti a tagliare le razioni, e poi a tagliarle ancora. A dicembre, avevamo programmato di raggiungere 1,1 milioni di persone con cibo per appena 10 giorni, che comprendeva scatolame, concentrato di pomodoro, olio e farina di grano.
Il nord di Gaza, assediato, è dove si soffre maggiormente la fame. Negli ultimi due mesi, le forniture sono arrivate a malapena.
“Il pane è l’alimento più importante per la gente oggi, perché non costa molto", mi dice il fornaio Ghattas Hakoura in una panetteria commerciale sostenuta dal WFP a Gaza City, nella parte settentrionale della Striscia. Uomini e donne prendono pile di pita, che costano tre shekel (meno di un dollaro a confezione), in file separate e strettamente controllate.
“La gente ha fame, ed è arrabbiata”, aggiunge Hakoura. “Hanno perso le case, il lavori, le famiglie. Non c’è carne, non c’è verdura – e se c’è, costa troppo".
Un sacco di farina da 25 kg può essere venduto a 150 dollari. In un’enclave dove un tempo i contadini raccoglievano agrumi, ortaggi e fragole, ho visto piccoli peperoni venduti in un mercato di Gaza City a 195 dollari al chilo. Nessuno li comprava. Nessuno poteva permetterseli.
Ibrahim al-Balawi, che tiene in braccio sua figlia piccola, mi dice che la bambina non ha mai bevuto un bicchiere di latte in vita sua. Non ha conosciuto altro che guerra.
Questa è la preoccupazione di molti genitori a Gaza, un posto in cui si sente il suono dei droni e il boato delle esplosioni 24 ore su 24, 7 giorni su 7, provenienti dal cielo, dalla terra e dal mare.
“Voglio che il futuro dei miei figli sia uguale a quello di qualsiasi altro bambino di un qualsiasi paese arabo”, mi dice Hind Hassouna, madre di quattro figli, a Khan Younis, dopo la nostra distribuzione di cibo. “Vivere una vita decente, indossare abiti decenti, mangiare cibo decente e avere una vita normale. La cosa più importante è essere liberi dalla paura, proprio come un qualsiasi bambino in qualsiasi paese arabo”.
Sopravvivere
Oggi i figli di Hassouna devono camminare per un chilometro e mezzo per prendere l’acqua. Mentre parla, nella sua casa-tenda – che può essere facilmente rovesciata dal vento o allagata dalle piogge invernali – la famiglia mangia il riso del WFP. Forse l'unico pasto della giornata. Un bambino pulisce lentamente il piatto fino all’ultimo chicco, e un sorriso fugace gli appare sul volto.
Sono i bambini a soffrire di più la guerra. In viaggio verso una distribuzione di cibo a Khan Younis, ho visto un cavallo morto tra le macerie. Lì vicino, una bambina rovistava tra i rifiuti, in cerca di cibo.
Più tardi, guidando verso Gaza City nel nostro veicolo blindato, lungo il corridoio militarizzato di Netzarim che divide il nord e il sud dell’enclave, abbiamo visto cadaveri ai lati della strada, che si decomponevano al sole. Poche centinaia di metri dopo, un piccolo gruppo di donne e bambini si dirigeva da quella parte, portando con sé le proprie cose. Avevano l'aria accaldata e stanca.
Che effetto avranno queste esperienze sui bambini di Gaza quando cresceranno? Cosa accadrà alla loro generazione?
In mezzo alla devastazione, gli abitanti di Gaza accolgono ogni parvenza di vita che riescono a creare. A Khan Younis, Abu Bilal ha scavato nella sua casa distrutta e ha usato le macerie per ricostruire i muri. Le lastre di cemento di quello che era stato un palazzo a più piani formano una specie di tettoia. Mi ha mostrato la sua casa, completa di un semplice bagno e di un lavandino in plastica, di fortuna.
“Pericoloso”, dice Abu Bilal del suo rifugio, che infatti potrebbe facilmente crollare durante una tempesta o un attacco aereo.
In quello che era un quartiere densamente popolato, anche Nabil Azab mi ha mostrato i resti della sua casa. Ex tassista, mi ha indicato la carcassa contorta del veicolo che un tempo gli dava da vivere. Come molte famiglie a Gaza, la sua è stata sfollata più volte, spostandosi da un insediamento di tende all’altro.
Quando un attacco aereo ha colpito la sua tenda nella città meridionale di Rafah – ferendo lui e altri membri della famiglia – Nabil Azab ha detto basta.
Anche loro hanno sgomberato le macerie della loro casa parzialmente distrutta a Khan Younis e vi sono tornati a vivere. Il loro edificio di quattro piani è tra i pochi ancora in piedi nella zona, ma poggia precariamente su un costone di sabbia.
Nel terreno antistante, la famiglia coltiva lattuga e altri ortaggi per sopravvivere. Ma non è sufficiente. “Guardo mia figlia mentre piange chiedendo cibo e mi sento impotente”, mi dice Azab. “Non posso fare niente per lei. Niente di niente”.