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Sfide, gioie e tanta passione. Antonella D’Aprile, Direttrice WFP in Nicaragua, si racconta

Il WFP opera in oltre 80 paesi al mondo, dall’Africa all’Asia all’America Latina. Ogni ufficio ha il suo Direttore o Direttrice, che…
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Antonella D'Aprile, Direttrice WFP in Nicaragua. Foto: WFP/Emanuela Cutelli

Il WFP opera in oltre 80 paesi al mondo, dall'Africa all'Asia all'America Latina. Ogni ufficio ha il suo Direttore o Direttrice, che rappresenta il WFP presso il governo nazionale ed è responsabile di tutte le attività che si svolgono nel paese. Per il quarto episodio di ‘Italiani e italiane in prima linea', abbiamo approfittato della visita a Roma di Antonella D'Aprile, Direttrice WFP in Nicaragua, per conoscerla meglio e per capire cosa significa essere a capo di un ufficio WFP sul campo. [Video racconto di due minuti in basso e qui].

Antonella sei la direttrice dell'ufficio del World Food Programme in Nicaragua, paese in cui il WFP opera dal 1971. Che cosa fa una direttrice del WFP? Quali sono le sue responsabilità, e come lavora il WFP sul campo?

Un direttore sul campo ha prima di tutto cura del suo staff, quindi ogni giorno si lavora moltissimo nel gestire e avere cura del proprio personale. Penso sia la mia più grande responsabilità. L'altra grande responsabilità è la relazione con il governo, con i donatori nel paese, con gli altri organismi internazionali con cui collaboriamo. Direi che la gestione delle operazioni è guidata sicuramente da me, ma è portata avanti dai miei collaboratori. È come se dovessi gestire una grande famiglia, ed essere sicura che tutti stiano bene e sappiano esattamente cosa devono fare.

Vuoi darci un'idea di questa ‘grande famiglia' in Nicaragua?

Siamo 72, inclusi 3 internazionali: io, il mio vice e una giovanissima stella del WFP uruguaiana, che mi aiuta nella raccolta fondi e delle risorse, tutto il resto è personale locale, come in tutti gli altri uffici del WFP sul campo, dove appunto la stragrande maggioranza dello staff è locale. È un piacere lavorare con loro perché, secondo me, quello che veramente deve fare un direttore è strutturare gli uffici, dare la possibilità allo staff nazionale di crescere, di acquisire conoscenze tecniche e manageriali: tutti diventano dei piccoli manager del proprio team. Nel momento in cui vedi che tutto funziona senza il tuo intervento giornaliero, significa che hai fatto bene il tuo lavoro. Spero che questo sia il caso del Nicaragua!

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Antonella D'Aprile con parte dello staff del WFP in Nicaragua

Si parla molto di lavoro umanitario e di sviluppo: in genere si pensa in maniera separata a queste attività. Ma sempre di più, in particolare nel WFP, si parla di Humanitarian Development Nexus, cioè collegarli, metterli insieme. Cosa significa questo in Nicaragua?

In Nicaragua è importantissimo pensare a come mettere insieme lo sviluppo e l'aiuto umanitario, per il tipo di geografia del paese. È una zona del mondo frequentemente colpita da eventi climatici negativi, alluvioni, uragani e siccità. Per cui bisogna lavorare a programmi di sviluppo sostenibile, a lungo termine. Sempre mantenendo però la preparazione alle emergenze, alla risposta umanitaria: per esempio, con dei sistemi di controllo delle problematiche climatiche, o degli shock naturali al fine di mitigarne gli effetti. Quello che voglio dire è che se si abbatte un uragano o si verifica una siccità, chiaramente noi dobbiamo poter intervenire a livello umanitario, dobbiamo salvare vite, dobbiamo essere sicuri che la popolazione non perda i propri mezzi di sussistenza. Allo stesso tempo bisogna continuare a lavorare con loro durante l'intervento umanitario per ripristinare i loro mezzi di sussistenza e i loro mezzi produttivi. È fondamentale strutturare gli interventi in questo modo, probabilmente lo abbiamo sempre fatto ma adesso si è articolato di più nella letteratura dello sviluppo.

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Qui insieme ad alcuni bambini in una scuola nicaraguense

Questi giorni sei a Roma per un workshop sul Dry Corridor. Che cos'è, come possiamo tradurlo in italiano, e perché è importante che se ne parli?

Purtroppo questa è una cosa abbastanza dimenticata del Centroamerica. Il Dry Corridor è una striscia di terra secca che va dal Messico a Panama, dove vivono 10 milioni di persone. Di queste, 1,4 milioni di persone sono colpite da cinque anni di siccità consecutive. È una zona naturalmente secca, però, in conseguenza della crisi climatica che viviamo da più di un decennio, ha periodi di siccità più prolungati, che quindi mettono in difficoltà e in stress alimentare le persone più vulnerabili.

Il profilo delle famiglie di questa zona vede agricoltori di sussistenza, con pochissima terra a disposizione. Mangiano quello che coltivano, o se riescono a coltivare un po' di più, avranno delle provviste per il periodo in cui aspettano il secondo raccolto.

In genere il calendario agricolo è di due raccolti l'anno, uno di grano turco e uno di fagioli. Con un periodo di circa due mesi in cui si aspetta il secondo raccolto. È in quel periodo che normalmente vanno in deficit di cibo. In Nicaragua abbiamo 200.000 persone a rischio e 85.000 bambini che vivono in questa striscia arida. Noi li stiamo aiutando sostenendo il programma di governo per le merende scolastiche con una seconda merenda, in modo che i bambini mangino almeno due volte a scuola, con il vantaggio di aiutare anche economicamente le famiglie. Siamo venuti a Roma per cercare di trovare una strategia programmatica e finanziaria di fondi più o meno comuni che ci aiutino a seminare adesso per quello che potrebbe essere uno sviluppo sostenibile della zona. Stiamo creando programmi che puntano più che altro alla costruzione della resilienza climatica di queste famiglie, alla diversificazione delle coltivazioni, alla conservazione del terreno e alla raccolta d'acqua, alla forestazione. Il Nicaragua ha uno dei più alti tassi di deforestazione: 100.000 ettari l'anno. Soltanto il 2% della terra del Dry Corridor è irrigata. Questo dà un po' la magnitudine del problema.

Quanta parte del territorio del Nicaragua è percorso dalla striscia arida, dal Dry Corridor?

Una parte del Pacifico che va dal nord al sud. Il problema è che questa striscia si sta espandendo verso la zona del sud dei Caraibi. Le mappature ci aiutano a considerare bene gli interventi da fare.

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Hai accennato all'alimentazione scolastica: l'importanza di avere bambini e bambine istruiti e con la pancia piena. ‘Con la pancia piena si impara meglio' era un vecchio slogan del WFP, sempre valido. Cosa fate a riguardo in Nicaragua?

Il WFP lavora insieme al governo del paese in un programma sociale nazionale, noi complementiamo il loro sforzo in alcune zone del paese che sono più remote, nelle zone indigene. Lavoriamo nel nord e nella zona caraibica. Assistiamo 182.000 bambini e bambine in 2.000 scuole fornendo loro una merenda, che in realtà è praticamente un pranzo, che rispetti tutte le abitudini alimentari del paese e che fornisca le calorie necessarie per uno sviluppo sano e in salute, ogni giorno.

Forniamo anche una sorta di porridge fortificato, con tutti i nutrienti di cui hanno bisogno i bambini ed i ragazzi in quella fascia d'età. Questa merenda altamente nutritiva viene data nelle scuole, dà l'apporto nutritivo di cui hanno bisogno, aiuta la concentrazione e riduce l'abbandono scolastico, che è un problema soprattutto nella zona indigena.

La scuola diventa un centro di gravità, perché si creano poi, ad esempio, gli orti scolastici, per imparare a mangiare alimenti nutrienti coltivando le verdure e la frutta di cui una famiglia ha bisogno. Facciamo moltissima sensibilizzazione su certi temi, ad esempio tantissimo sulla nutrizione, sull'importanza di dover mangiare diversificando il regime alimentare.

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C'è una stretta collaborazione tra il WFP e il governo del paese sui programmi di alimentazione scolastica. Il wfP assiste 182.000 bambini e bambine in 2.000 scuole fornendo loro una merenda nutriente.

Sappiamo che tieni molto al mondo femminile e alla sua emancipazione. Come sostenete le donne in Nicaragua?

Con le donne lavoriamo nelle cooperative. C'è una connessione tra alimentazione scolastica, donne e cooperative: noi come WFP compriamo dai piccoli produttori derrate alimentari che servono per la scuola, creando così un circolo virtuoso. Stiamo puntando a fare in modo che almeno la metà degli agricoltori con cui lavoriamo siano donne. C'è moltissima diseguaglianza tra uomini e donne, non soltanto in termini di accesso al credito, alla terra, ma anche in termini economici.

Le donne sono molto meno indipendenti, non si sentono neanche produttrici quando le intervistiamo quanto piuttosto assistenti dei mariti. Facciamo tutto un lavoro di identificazione, per far sì che si riconoscano come contadine, e poi lavoriamo su un tema molto importante in questo momento, non solo in Nicaragua: la mascolinità, cioè smitizzare o abbattere questo prototipo e stereotipo del maschio che domina. Facciamo corsi di formazione che delle volte durano anche sei settimane, per smontare questa barriera sociale. Si lavora molto con le donne e anche con gli uomini, sulle modalità familiari. Un esempio? Quando si insegna "a non piangere come una bambina", a pensare che l'uomo sia più forte e che la donna debba stare a casa. Quindi lavoriamo anche su questi temi, di consapevolezza e coscienza femminile. In più abbiamo adottato una strategia di rafforzamento economico delle donne, che ha permesso a 350 donne di avere un diretto accesso ai mercati. Hanno più ruolo nelle loro cooperative, prendono delle decisioni insieme ai loro uomini o mariti, e noi siamo soddisfatti del successo di queste iniziative.

Molto interessante, perché significa che il WFP al fine di portare avanti la sua missione, pone il ruolo femminile al centro dei suoi interventi. Come reagiscono gli uomini a questi corsi per smontare la mascolinità?

Non è facile. Posso dire che arrivare come direttrice donna in Nicaragua non è stato facilissimo, soprattutto dal punto di vista dell'accettazione dei miei colleghi uomini, perché non abituati. Mi facevano dei commenti del tipo ‘il suo predecessore era maschio, ci capivamo meglio', e i commenti erano abbastanza negativi. Non è stato facile, ma l'importante è perseverare. Abbiamo avuto dei risultati eccezionali, a fronte di molta reticenza e perplessità, ma ce l'abbiamo fatta. Nel nuovo piano strategico 2019–2023, abbiamo sviluppato, unico ufficio WFP in tutto il mondo, un obiettivo specifico sulla uguaglianza di genere. Ho ricevuto per questo molti complimenti, ma io ho solo messo insieme e collegato delle grandi cose che il team nazionale sta facendo: abbiamo un'esperta di gender che è molto brava e ha un background in agricoltura, quindi conosce bene la zona rurale. È molto appassionata nel suo lavoro: io non ho fatto altro che facilitare e consolidare questi successi.

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In quale campo pensi che il lavoro del WFP abbia maggiormente contribuito al miglioramento e al cambiamento della vita delle persone in Nicaragua, ma anche in generale, nei circa 80 paesi in cui opera.

Secondo me il programma di alimentazione scolastica è uno dei cavalli di battaglia del WFP, abbiamo moltissima esperienza e abbiamo capito che possiamo capitalizzare su questo. Dobbiamo continuare così. Siamo considerati i migliori nel campo dell'emergenza, ed è vero, ma il punto è che dalla merenda del programma di alimentazione scolastica potremmo specializzarci per diventare anche dei campioni nello sviluppo sostenibile. Dovremmo arrivare a ridurre tutte le emergenze, o a mitigare gli effetti di una serie di eventi climatici. Secondo me dobbiamo continuare anche a diversificare il nostro lavoro, non troppo perché poi disperdi un po' le energie, però il mondo cambia e cambiano anche le sfide. Dobbiamo adattarci.

Essere un operatore umanitario significa anche affrontare delle sfide importanti. Quale è stata la sfida che ti ha più toccato, e allo stesso tempo quale è stato il tuo momento più bello e felice nel WFP?

Il WFP ti cambia la vita. Nel momento in cui diventi un operatore umanitario del WFP, la tua vita diventa il WFP. Ti prende tutto, la vita privata, la tua giornata, le tue energie. Per me la cosa più bella è che sono riuscita a mantenere una famiglia: io ho 4 figli, due ragazze e due ragazzi, quindi per me questa è stata la mia grande sfida. Sono testarda, e ho continuato a mantenermi solida nelle mie convinzioni. La famiglia ti aiuta un po' a controbilanciare tutta questa energia che diamo all'organizzazione. Il momento più bello? Onestamente, ne ho avuti tantissimi… Non so, quando vedi che le persone che meritano e lavorano tanto, riescono ad andare avanti. E' successo un po' anche a me, alla fine. Sono italiana, vengo da un sistema di istruzione pubblico, ho imparato l'inglese a 20 anni ma sono andata avanti per convinzione e per passione. Fondamentale è mantenere un atteggiamento etico. Quando delle donne, colleghe, vanno avanti per merito, mi fa molto piacere.

Tu lavori sul campo. Puoi raccontarci di un momento intenso che hai vissuto in Nicaragua?

In genere quando vai e visiti progetti sul campo o viaggi nel paese, la gente è gratificata dal fatto che li vai a trovare, si sentono privilegiati solo perché sei andato a fare loro visita. Arrivi magari in comunità anche molto piccole, e l'accoglienza è sempre piena di umanità e calore. Recentemente sono stata in visita in una comunità indigena, che vive lungo uno dei tanti fiumi nicaraguensi. Ero con la mia squadra di monitoraggio, tutto personale locale, e volevo vedere i progressi del nostro progetto di alimentazione scolastica. Quel giorno mi accompagnava anche mio marito, e siamo arrivati in una piccola scuola, legata a una piccola comunità: erano tutte donne e bambini, perché i mariti erano emigrati per il lavoro stagionale. Mio marito è una persona che non passa inosservato, è robusto e alto, ha i capelli ricci, la carnagione scura, porta un orecchino e i capelli a coda di cavallo.

Le donne si sono avvicinate e ci hanno chiesto chi fossimo. Ho risposto: ‘io sono straniera, accompagno i colleghi, sono venuta a conoscere un po' il programma'. Mi hanno chiesto subito dopo chi fosse l'uomo che mi accompagnava, ‘è mio marito', ho risposto. ‘E quindi è lui che segue lei?' è stata la reazione generale. A quel punto, Spyros, mio marito (che è greco e di professione fa lo chef), è intervenuto dicendo "Sì, e comunque io cucino, anche per la mia famiglia". L'impatto che questa conversazione ha avuto su di loro è stato strabiliante: la comunità ha voluto sapere i nostri nomi, perché alla prima nuova nata avrebbero dato il nome di Antonella (il mio) e il primo maschietto l'avrebbero chiamato Spyros!

Noi influenziamo, noi cambiamo le vite nel momento in cui viviamo in questi posti. Dalle persone che lavorano nelle nostre case a quelle che incontriamo nelle nostre missioni. Ne ho tanti di aneddoti del genere.

Per esempio, un altro momento significativo si è verificato nelle prime settimane di servizio come Direttrice e Rappresentante WFP nel paese. In questa funzione, vengo convocata dal governo del Nicaragua. Volevano discutere di cambiamenti a livello di modus operandi con la Cooperazione e analizzare il il programma in appoggio alle famiglie dei piccoli produttori per decidere se mantenerlo o meno. L'incontro vero e proprio sarebbe avvenuto il giorno dopo, durante un pranzo di lavoro. Io ero molto preoccupata, pensavo al destino di circa 3.000 famiglie di agricoltori con cui lavoriamo e alla mia squadra che si occupa di loro e che sarebbe rimasta senza lavoro. Continuavo a riflettere, a cercare soluzioni alternative. Mio marito, vedendomi così scura in volto, mi dice: ‘perché non gli porti una moussaka greca, visto che ti hanno invitato a pranzo?' E così ho fatto. Il giorno dopo, mi sono presentata al pranzo di lavoro — c'era anche il ministro degli affari esteri — con questo pentolone pieno di moussaka, avvolto in un panno colorato. Mio marito aveva passato la notte a prepararla. Ho messo il pentolone sul tavolo, e ho detto che nella mia cultura quando ti invitano a pranzo devi sempre portare qualcosa, ‘mi sono permessa di portare una moussaka greca'. Per parecchi minuti non abbiamo parlato d'altro che della preparazione della moussaka, ho spiegato che la ricetta è di mia suocera e che l'autore era mio marito, di professione chef. Tutto era diventato improvvisamente più facile, si era rotto il ghiaccio. Alla fine, il programma in appoggio ai piccoli produttori è andato avanti.

Quando si dice che il cibo mette insieme le persone ed è veramente uno strumento formidabile di comunicazione…

Assolutamente. E io non potrei fare quello che faccio senza mio marito. Mi sostiene sempre, mi aiuta. Abbiamo quattro figli. Io ho perso il mio primo marito, per me è stato un rimettermi in gioco. Avevo due bambine piccole. Lui è stato bravissimo perché è come se io fossi rinata: non è facile, si è rimesso in gioco per me. Mi accompagna, e quando gli viene chiesto cosa fa, lui risponde sempre che si occupa della cucina nella sua famiglia. Abbiamo sempre la casa piena di amici, mangiamo tutti insieme, lui è bravissimo!

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Ci vuoi raccontare in breve il tuo percorso professionale e come sei arrivata a diventare la Rappresentante WFP in Nicaragua?

Sono entrata al WFP nel 1999, a 28 anni, come Junior Professional Officer. Prima avevo lavorato per tre anni in Kenia e in Somalia con ONG italiane. Ho lavorato con Terranuova e con il CISP in programmi di appoggio agli artigiani di strada in Kenia e a programmi di sostegno alla salute (ospedali del sud e scuole).

Al WFP, ho iniziato proprio in Nicaragua, dove c'era l'ufficio regionale. E' stato il mio primo incarico, lavoravo come Monitoring and Evaluation Officer nella risposta all'uragano Mitch nella regione. Da lì poi sono stata in Malawi, per la risposta a una delle più grandi siccità nel mondo che ha portato poi a 2,2 milioni di persone alla fame. Ero Reporting Officer, e ho inizato a lavorare con i team di gender: tutto questo dal 2002 al 2005. Poi, per questioni personali, per un evento tragico della mia vita privata — ho perso il mio primo marito nel 2005 in un incidente stradale — il WFP mi ha offerto la possibilità di tornare in sede, a Roma. Sono rimasta vedova a 33 anni, con Jasmine, mia figlia, che aveva 5 anni e Nicole, l'altra mia bambina, che aveva 18 mesi. A Roma ho lavorato un anno occupandomi di alimentazione scolastica, poi sono passata alla Operations Unit, sono tornata a lavorare a quello che significa sostanzialmente programmazione di fondi. Ho fatto il Desk Officer per la regione centro orientale dell'Africa. Nel 2008 ho conosciuto il mio nuovo marito, abbiamo avuto due figli, Nicola e Antonio Ernesto. Poi siamo andati poi in Kenia, dove sono stata Capo Sezione dell'unità di Resource Management fino al 2015. Abbiamo lavorato tantissimo soprattutto in appoggio alle operazioni nel Sud Sudan, e poi per la crisi dei grandi laghi in Burundi e Ruanda. Nel 2015 — avevo appena finito il mio quarto anno a Nairobi — mi è arrivata una mail dall'ufficio delle risorse umane invitandomi a fare domanda al posto di Direttore in Nicaragua. Conosco lo spagnolo, e conoscevo già il Nicaragua: ho chiesto ai miei capi se erano d'accordo, ho fatto domanda e sono stata presa.

Il WFP lavora in oltre 80 paesi del mondo, e molti di loro sono considerati non "family duty station", per motivi di sicurezza, cioè le famiglie non possono accompagnare i dipendenti.

In molti pensano che la nostra è una vita affascinante e privilegiata, e non nego che possa esserlo, ma è una vita fatta anche di grandissimi sacrifici. Sei di fatto sradicata, ogni tre o quattro o cinque anni devi spostarti in un nuovo paese, adattandoti al nuovo ambiente insieme alla tua famiglia. Ci si espone anche a diverse malattie, che non esistono nel tuo paese. Per dire, ho passato il periodo delle mie gravidanze da sola, in posti dove c'era la malaria e il dengue. La tua vita con il WFP non finisce alle quattro o alle cinque del pomeriggio… quindi non è facile. Indubbiamente ai nostri figli diamo la possibilità di imparare e di guardare il mondo da altri punti di vista, ma anche per loro non è sempre facile. Io lo vedo adesso con i miei tre ragazzi adolescenti…tutti i ragazzi hanno problemi in questa età delicata, ma in questi casi sono accentuati perché si è più isolati. La mamma spesso non c'è, per motivi di lavoro.

Un consiglio a chi fosse interessato a lavorare nel mondo umanitario, alle Nazioni Unite?

Per quanto mi riguarda, quello che mi motiva e mi spinge nel mio lavoro è la passione. Bisogna essere onesti in questo lavoro. Se non hai la passione, è meglio fare altro. Perché siamo a stretto contatto con le persone. E quindi chi ha la passione si deve sacrificare, deve sapere che c'è il sacrificio e deve mantenere quella passione. Nel momento in cui la fiammella si spegne, è meglio che si cambi lavoro.

Antonella d'Aprile si racconta in due minuti: