COP26: agire ora sulla crisi climatica o altri milioni di persone soffriranno fame e carestia
Dall’Afghanistan allo Zimbabwe, gli eventi meteorologici estremi, collegati al cambiamento climatico, stanno causando miseria e fame per milioni di individui. Oggi, sono 811 milioni le persone che soffrono la fame nel mondo, una cifra che potrebbe aumentare esponenzialmente se i 196 paesi che hanno sottoscritto gli accordi di Parigi nel 2015 non rispettano gli impegni presi.
I paesi sviluppati hanno promesso di fornire finanziamenti e risorse di cui i paesi vulnerabilli e a basso reddito hanno bisogno per adattarsi alle consequenze devastanti della crisi. Ѐ per questa ragione che la COP26, il summit sul clima delle Nazioni Unite che si svolge a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, è così importante.
Dobbiamo renderci conto che, cercando di limitare il riscaldamento climatico a 1,5 gradi, ben al di sotto dei 2 gradi, la comunità internazionale sta cercando di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, ma bisogna chiuderla se vogliamo evitare la catastrofe. (Il sito web delle Nazioni Unite sul clima recita: “Per raggiungere l’obiettivo a lungo termine di questa temperatura, i paesi prevedono di raggiungere il picco globale delle emissioni di gas serra il più presto possibile per raggiungere un mondo climate-neutral entro la metà del secolo”).
Nessuno si può chiamare fuori. Quest’anno ci sono state inondazioni devastanti in Germania e a New York. L’Italia ha registrato la temperatura più calda mai verificatasi in Europa, 48,8 gradi. Gli incendi hanno causato immense distruzioni in popolari località turistiche in Grecia e in Turchia.
Etiopia, Madagascar, Sud Sudan e Yemen sono tra i paesi dove 584.000 persone, oggi, vivono in condizioni simili alla carestia, con il cambiamento climatico che si interseca con l’altra maggiore causa della fame, i conflitti, spingendo 42 milioni di persone sull’orlo della carestia.
Gernot Laganda, responsabile della divisione del World Food Programme di Prevenzione dai rischi di disastri e del clima, così spiega: “Le risorse naturali come l’acqua pulita e le terre fertili stanno diminuendo e la competizione per queste risorse si sta facendo più aspra. Ciò sta portando a una interconnessione tossica tra la crisi climatica, i conflitti e la fame”.
Secondo gli ultimi dati, se la temperatura della terra dovesse salire di 4 gradi rispetto ai livelli preindustriali, 1,8 miliardi di persone in più verrebbero spinte alla fame. Per dare una misura della posta in gioco, si pensi che il WFP, con uno staff di 20.000 persone in oltre 80 paesi, al momento prevede di raggiungere 100 milioni di persone e ha bisogno di 6,6 miliardi di dollari per evitare carestie.
Recentemente, Petteri Taalas, a capo dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, ha sintetizzato così l’urgenza del compito che si ha davanti: “La rapida riduzione degli ultimi ghiacciai rimasti nell’Africa orientale, che si stima si scioglieranno del tutto a breve, è un chiaro segnale della minaccia di un cambiamento imminente e irreversibile al sistema terra”.
Alla conferenza di due settimane, ospitata dal Regno Unito e dall’Italia in Scozia, non si tratta solo di accendere i riflettori sulla crisi climatica che il WFP, le altre agenzie delle Nazioni Unite e i partner umanitari stanno cercando di evidenziare ma si vuole sottolineare come sia un dovere collettivo, di tutti noi, verificare come stiamo rispondendo, in un’ottica di collaborazione, coordinamento e azione.
La risposta d’emergenza è un aspetto chiave del lavoro del WFP, come l’organizzazione ha dimostrato, per esempio, nel 2019 a seguito del ciclone Idai in Mozambico e, più recentemente, dopo il terremoto ad Haiti.
Anche se quello che si preferisce è lavorare sui rischi del clima prima che si trasformino in disastri: usando dati di allerta precoce per far scattare il sostegno finanziario, ripristinando ecosistemi degradati come barriere naturali, proteggendo i più vulnerabili con reti di protezione e assicurazioni contro gli estremi climatici.
La gestione dei rischi climatici del WFP raggiunge oltre 6 milioni di persone in 28 paesi. In Bangladesh, a luglio dello scorso anno, il WFP ha sostenuto 120.000 persone con assistenza in contanti quattro giorni prima di una forte inondazione che era stata prevista lungo il fiume Jamuna. Questo denaro fu usato dalle persone per acquistare cibo e medicine, proteggere beni vitali e mettere le proprie famiglie e il bestiame in sicurezza.
Attraverso l’utilizzo dei dati di allerta precoce al fine di innescare azioni anticipatorie, il WFP mette le famiglie in condizione di prepararsi all’impatto delle inondazioni prevenendo perdite e danni. Ciò riduce i costi della risposta d’emergenza.
In Ciad, il WFP interviene nell’arida cintura del Sahel con serre arboricole che producono circa 1 milione di semi di albero all’anno. Gli alberi aiutano a ricostituire il terreno degradato, a ricaricare le falde acquifere, a catturare migliaia di tonnellate di diossido di carbonio, permettendo la produzione di cibo nutriente.
In America Centrale, il WFP ha sostenuto oltre 32.200 persone vulnerabili nel ‘dry corridor’ in El Salvador, Guatemala e Honduras, aiutandole ad adattarsi all’impatto della siccità e a migliorare i mezzi di sostentamento attraverso attività di generazione di reddito.
Nel 2020, il WFP ha protetto 1,2 milioni di persone in Mali, Mauritania, Burkina Faso, Zimbabwe e Gambia da siccità catastrofiche con assicurazioni dal rischio climatico attraverso l’iniziativa African Risk Capacity Replica.
Nel sud Madagascar, il WFP ha lanciato un programma di microassicurazioni per gli agricoltori nei distretti di Amboasary e Ambovombe colpiti dalla siccità. Dopo una prima semina andata perduta, circa 3.500 famiglie ricevono premi di 100 dollari ognuna a copertura della perdita del loro raccolto di mais.
Ѐ nostro auspicio che, a COP26, i governi riconoscano l’importanza di passare da una risposta alla crisi a una gestione dei rischi, e per farlo abbiamo bisogno di impegni per finanziamenti che siano più prevedibili, più flessibili e più a lungo termine.
Fondamentale sarà favorire uno spirito di collaborazione. Le organizzazioni umanitarie hanno grande esperienza di gestione dei rischi e devono essere riconosciute come una risorsa per i governi nei loro sforzi per aumentare la resilienza dei sistemi alimentari. Sistemi alimentari che non funzionano e che devono essere sanati.
La buona notizia è che, ancora per un po’, si può fare. Ma bisogna agire ora.