Rifugiati: l’SOS viaggia sul cellulare
Londra, 20-06-06 (articolo di Greg Barrow*) - Il cellulare squilla due volte nell’ufficio londinese del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, sembra sussultare, è il bip di un messaggio in arrivo. Forse si tratta di un incontro cancellato all’ultimo minuto o di una pubblicità indesiderata che si è intrufolata nella rete. Invece no.
E’ una richiesta di aiuto che arriva direttamente da una zona disastrata del Corno d’Africa.
Mi chiamo Mohammed Sokor, scrivo dal campo profughi di Dagahaley, nel Dadaab. Caro signore qui il problema è grave. La gente riceve troppo poco cibo. Deve aiutarciMohammed Sokor, Dadaab
Il messaggio è sintetico ed esplicto: “Mi chiamo Mohammed Sokor, scrivo dal campo profughi di Dagahaley, nel Dadaab. Caro signore qui il problema è grave. La gente riceve troppo poco cibo. Deve aiutarci”.
Improvvisamente, due mondi si scontrano. Chi manda il messaggio è un uomo in fuga dalla guerra che sopravvive in un campo profughi situato in una zona di grande siccità. Chi lo riceve è un uomo che vive nell’agio del mondo industrializzato, dove fame e povertà sono problemi distanti, oltre l’orizzonte dei più.
L’iniziativa di Mohammed, per le sue modalità, non sembra avere molti precedenti. Il modo in cui egli usa il cellulare ha il potere di mostrare come lo spazio che separa chi “ha” da chi “non ha” è molto più esiguo di quanto si possa immaginare. Lo stereotipo di vittima anonima e senza volto di uno dei tanti disastri africani è, di colpo, cancellato. La tragedia che affonda il Corno d’Africa ha ora una voce e un nome.
Una telefonata a Mohammed rivela la storia che si cela dietro la sua richiesta di aiuto. Tutto ebbe inizio 15 anni fa quando era ancora uno studente, costretto a fuggire dalla sua città natale, Bardere. Come molti altri somali, Mohammed aveva avuto la sfortuna di nascere in un paese avviato alla disgregazione dopo la fine improvvisa della Guerra Fredda, che aveva tenuto assieme paesi dalle strutture statuali fragili. Era l’inizio degli anni Novanta.
Milizie armate riempirono il vuoto lasciato da un governo assente esacerbando ancora di più gli effetti della terribile carestia in Somalia. Decine di migliaia di persone cercarono scampo verso sud, attraversarono il confine alla ricerca di una sicurezza, sia pure relativa, nel nord del Kenya. Furono confinati nei campi profughi di una delle zone più desolate del mondo e qui, molti, sono rimasti sino ad oggi.
La vita in Somalia era dura. Nel nord del Kenya lo fu quasi altrettanto. I campi di Dadaab sono situati in un’area semi-desertica che può diventare torrida di giorno e fredda di notte. Mohammed passa le sue giornate facendo il volontario in una scuola elementare per conto di un’agenzia di aiuto internazionale all’interno dei campi rifugiati.
Può sembrare strano che una persona che non ha abbastanza cibo per sfamarsi possa permettersi il lusso di un telefono cellulare. Ma questo è uno dei grandi paradossi dell’Africa moderna dove il cellulare non è considerato un lusso ma una necessità: è economico e viene usato molto più di quanto si possa immaginare. Per i commercianti è il mezzo primario per favorire gli scambi e per i milioni della diaspora africana – come Mohammed - è lo strumento che tiene assieme comunità altrimenti disperse.
Le capanne di rifugiati come quella di Mohammed difficilmente sono confortevoli. In genere sono fatte di rami intrecciati, teli di plastica e stracci. 15 anni passati a Dadaab è un vero purgatorio e quest’anno è stato particolarmente duro per Mohammed.
Le stagioni secche si sono succedute senza tregua e il suo campo profughi si trova nell’epicentro di un disastro regionale che colpisce oltre 8 milioni di persone nel Corno d’Africa. Vivere in una zona di siccità può essere considerata una sfortuna ma vivere in un campo profughi di un’area disastrata è una vera sciagura. Anche nei luoghi di maggiore sofferenza, sopravvivono le gerarchie sociali e i rifugiati si trovano nel gradino più basso di questa scala.
La maggior parte dei rifugiati vive nell’Africa sub-Sahariana, come Mohammed che appartiene ad una popolazione mondiale di 1,9 milioni di rifugiati che il PAM intende sfamare quest’anno.
Non stupisce che Mohammed e la sua famiglia abbiano fame. I fondi per dare assistenza alimentare a 230.000 rifugiati somali e sudanesi nel nord-est del Kenya sono così pochi che il PAM, quest’anno, è stato costretto a tagliare del 20 per cento le razioni di cibo. E’ stata una decisione difficile, come mettere a dieta rigida chi ha fame.
Per questo, probabilmente, Mohammed ha scelto di mandare il messaggio a me. Se avesse avuto tempo e denaro avrebbe potuto far circolare il suo appello telefonico tra ministri, pubblici funzionari o, persino, spedirlo a Bono, Richard Branson e Bill Gates.
Non succederà mai ma sarebbe interessante vedere la reazione dei donatori se, per garantire la regolarità dei rifornimenti di cibo, il Programma Alimentare Mondiale distribuisse telefoni cellulari e una lista di numeri telefonici dei VIP.
Quei semplici SMS dei rifugiati potrebbero diventare efficaci SOS per milioni di persone la cui voce solo raramente viene udita.
*Greg Barrow è il
Portavoce del Programma Alimentare
Mondiale delle N
azioni Unite in Gran Bretagna.