Donne protagoniste in Africa occidentale
di Vichi de Marchi, Portavoce per l'Italia del PAM
Bamako (Mali) - Una donna procede lentamente nel traffico caotico e polveroso di Bamako con un figlio accoccolato in un grande foulard sul dorso, un altro davanti e in testa un secchio misteriosamente stabile. Guida una motocicletta come se ne vedono tante per le strade della capitale del Mali solo che, in genere, a guidarle sono gli uomini. Sorpassa un cartellone pubblicitario che annuncia la conferenza, organizzata dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo e dal Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (PAM), sulle donne dell’Africa occidentale e su come dare loro più potere.
Nella grande sala convegni della città, nel cuore del Sahel, i volti e i colori di 18 paesi africani si mescolano a quelli delle occidentali e delle immigrate sospese tra due mondi. Ascoltano i discorsi e rumoreggiano se le cose prendono una piega troppo burocratica o astratta. La bellezza dei loro volti fa venir in mente il titolo di un libro del premio Nobel Rita Levi Montalcini “Eva era africana”. La Grande Madre d’Africa ascolta i discorsi, partecipa. I vestiti della festa non oscurano il volto affaticato ma mai rassegnato della quotidianità.
Si parla di empowerment, una parola che nessuno ha il coraggio di tradurre per non perdersi in mille giri di parole. Un glossario delle Nazioni Unite sulle “buone pratiche di genere” spiega che il termine significa dare più potere alle donne nella sfera politica, economica e delle professioni.
Nella patria della povertà endemica, dell’analfabetismo che accomuna oltre due terzi di una popolazione composta per metà da giovanissimi, la sfida non intimidisce e ciascuno ha il suo pezzo di storia da raccontare.
Empowerment sono le donne che si sono organizzate per ripulire un quartiere della città, costruire le strade, mettere a nuovo un centro che le accolga per incontrarsi, parlare dei loro problemi e, sì, anche di politica.
Le guida Aminata Traorè, volto noglobal di un’Africa dimenticata ma anche scrittrice di successo e attenta imprenditrice. Le sue antiche frequentazioni delle stanze del potere, come funzionaria dell’ONU e ministro della Cultura, le hanno fornito gli strumenti per parlare delle “sue” donne anche con il linguaggio dell’Occidente.
Al mattino, intervenendo alla conferenza, ricorda i mille concreti problemi delle donne africane; la salute, i figli che non vanno a scuola, la povertà di chi lavora 12 ore nei campi per avere, a malapena, una tazza di mais. Alla sera fa sfilare le modelle, gli abiti, i colori di quella moda africana che si affaccia prepotente in Occidente rivisitata dal glamour delle riviste patinate. Sorride mentre saluta gli “italiani” venuti dal Nord e gli abitanti della città-villaggio di Bamako accorsi a questo raduno così insolito. Conosce i mille trucchi della globalizzazione. Racconta, divertita, che in Cina producono gli orecchini alla Aminata Traorè, un marchio che sta solo nella bellezza con cui lei porta monili poveri e fantasiosi, divenuto altrove un marchio di fabbrica.
Sfilano gli stilisti del Mali, del Senegal, della Costa d’Avorio, del Burkina Faso che Traorè utilizza per parlare del cotone, tra i migliori al mondo per qualità, un tempo grande risorsa economica del paese e oggi prodotto quasi in perdita.
Appena fuori Bamako, lontane le passerelle della moda, si scorgono gli aridi campi coltivati. Se Eva era africana, di sicuro era anche contadina, come lo è la stragrande maggioranza delle donne del Mali e condivideva, con altre, una vita scandita dalla fatica; sveglia alle 4, talvolta alle 5, ricerca della legna, ore di cammino per trasportare pochi secchi d’acqua. Se non c’è la guerra, se la siccità è scongiurata e le cavallette non si sono presentate, c’è la fortuna di coltivare un pezzetto di terra e poter mangiare due volte al giorno in un paese dove la povertà e l’insicurezza alimentare toccano il 70 per cento di chi abita le campagne ed è donna.
Empowerment, nelle terre strappate al vento del deserto, si chiama microcredito e micro imprenditoria al femminile. Qualcuno ricorda le piccole “banche del grano” di tipo comunitario sorte in Guinea Bissau, che prestano cibo e sementi nei periodi di magra e alle donne chiedono interessi più bassi che agli uomini. O i corsi di formazione del PAM che offrono cibo e quel minimo di qualificazione professionale che consente di migliorare le tecniche agricole, di imparare un mestiere, di conquistare uno scampolo di autonomia, magari anche la capacità di leggere e scrivere in un paese dove solo il 12 per cento delle donne adulte è alfabetizzato. In Occidente le chiameremmo “azioni positive”, qui strategie di sopravvivenza al femminile.
Empowerment sono anche le donne che hanno preteso e ottenuto dal PAM che gli aiuti alimentari - in un paese dove l’agenzia Onu ha assistito negli ultimi cinque anni oltre tre milioni di persone – venissero consegnati a loro e non a mariti, fratelli, padri che, lungo la strada, li avrebbero, forse, barattati per un po’ di alcool, qualche sigaretta o del sesso mercenario. Richiesta accolta e subito messa in pratica, anzi rafforzata, con un meccanismo ad hoc per le famiglie poligame.
Il cibo dato alle donne – lo dicono le statistiche raccolte dal PAM in anni di politiche di “genere” - finisce davvero nelle mani di chi ne ha bisogno. Dalla famiglia al collettivo il passo è breve. “Le donne funzionano anche nei comitati di gestione delle magre risorse comunitarie o nella distribuzione dei viveri, nei collettivi che aiutano ong e agenzie ONU a realizzare piccoli e grandi progetti”, dice Alice Martin Daihrou, direttrice del PAM in Mali, radici africane, voce sussurata e carattere d’acciaio.
Il suo obiettivo è avere il 75 per cento di donne nei programmi di formazione professionale dell’agenzia ONU. Attirare le bambine a scuola è un altro dei suoi impegni. Come? Offrire un pasto a scuola non basta. E allora, ecco la promessa di cibo anche per la famiglia se – rompendo una pratica secolare che confina le femmine a casa in attesa di un matrimonio precocissimo - accetta di far frequentare con costanza le lezioni alla figlia. Obiettivi, pratiche e persino qualche successo sono chiari. I bisogni pure e sono immensi, le risorse pochissime. Il piano di azione triennale che annuncia a Bamako la vice ministra degli Esteri Patrizia Sentinelli sarà affiancato da una Gender Task Force. La promessa sono 10, forse 15 milioni di euro da destinare alle donne dell’Africa Occidentale nel 2007.
La platea ascolta attenta e soddisfatta. Qualche occidentale si è lasciata sedurre da Eva l’africana e veste i suoi varipinti abiti. Patrizia Sentinelli fa un secondo annuncio: a maggio, a Roma, ci sarà una conferenza internazionale per la pace in Somalia, protagoniste le donne immigrate, le somale della diaspora. Per un attimo immagino un capovolgimento di ruoli: e se fossimo noi le immigrate e loro, le donne d’Africa, le fortunate signore pronte ad accoglierci? Mi sento a disagio e penso che, forse, non avremmo la loro forza di guardare al futuro.